comunicato 131/2013 indice news
GDP 8 settembre 013
GDP VITTORIO EMANUELE III
Otto settembre 1943 settant’anni dopo
IL RE CHE VOLLE ESSERE D’ESEMPIO
di Aldo A. Mola (*)
(*) Nel 70° della resa dell’Italia agli anglo-americani (8 settembre 1943) torniamo sui protagonisti di quel dramma. Iniziamo dal Re, perché Vittorio Emanuele III deteneva la somma dei poteri e fu il vero centro e garante di tutte le decisioni. Manca una sua biografia scientifica, ma utili notizie di ricavano da siti web come www.monarchia.it e www.realcasadisavoia.it .
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d’Egitto, 28 dicembre 1947) regnò dall’assassinio del padre, Umberto I (Monza, 29 luglio 1900), all’abdicazione a favore del figlio, Umberto II (9 maggio 1946), al quale, su arrogante pressione degli anglo-americani e dei partiti di sinistra, l’11 aprile 1944 s’impegnò a trasmettere tutti i poteri della Corona, nessuno escluso, alla liberazione di Roma. Questa avvenne solo il 4-5 giugno 1944, ben undici mesi dopo lo sbarco alleato in Sicilia.
Allievo nel Real Collegio Militare della Nunziatella a Napoli dal 1881, nel 1896 sposò Elena di Montenegro, e ne ebbe cinque figli: un maschio, Umberto di Piemonte (15 settembre 1904-18 marzo 1983) e quattro femmine (Jolanda, Mafalda, Giovanna, Maria). Assunse la corona, che certo non attendeva così presto né a quel modo, perché, disse, un Savoia non è mai un vile. Dall’ascesa al trono affidò il governo a liberali e democratici come Giuseppe Zanardelli, massone, Alessandro Fortis, originariamente repubblicano, Luigi Luzzatti, ebreo non osservante, come il sindaco di Roma, Ernesto Nathan, Sidney Sonnino, di famiglia ebraica, ma protestante, e soprattutto Giovanni Giolitti, massimo statista della Nuova Italia, per il quale, come già per Cavour, Stato e Chiesa sono due parallele che non debbono né mescolarsi né intralciarsi. Agnostico e libero pensatore, ma rispettoso delle religioni, Vittorio Emanuele non ebbe pregiudizi ideologici di sorta.
Guardò sempre con distacco i partiti e la politica interna, che per lui erano come i visceri rispetto alla “testa”, cioè lo Stato, sintesi di politica estera e Forze Armate. Badava all’amministrazione dei bisogni, convinto, come Giolitti, che due generazioni bene educate e bene allevate avrebbero portato gli italiani in pari con i popoli più progrediti perché da tanto più tempo uniti (Gran Bretagna, Francia…) o perché orgogliosi dell’unità etnico-linguistica e civile (la Germania). Per coronare il Risorgimento, facendo coincidere i confini politici con quelli naturali, impegnò l’Italia nella Grande Guerra: una prova severa per il Paese. Gli vengono rimproverati l’ascesa del fascismo nel 1922, le leggi razziali del 1938 e il trasferimento da Roma a Brindisi il 9 settembre 1943, alla proclamazione dell’armistizio, impropriamente e polemicamente definito “fuga”.
I documenti provano che il re affidò il governo a Benito Mussolini (30 ottobre 1922, senza alcuna “marcia su Roma”) per impulso e con il consenso di nazionalisti, liberali, cattolici, demosociali, poteri economici, chiesa e persino dei tanti socialisti, che continuavano a considerarlo “un compagno che sbaglia”. Il Parlamento gli tributò uno straripante consenso. Anche dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1925), Benedetto Croce e tanti liberali e cattolici continuarono a votarlo. Anno dopo anno Mussolini isolò il re e nel 1938 impresse al partito fascista una linea antimonarchica, proprio facendo leva sulle leggi razziali. Il sovrano si rassegnò a promulgarle dopo che erano state approvate da Camera e Senato. Nessuna voce forte e chiara si levò contro, né dal paese, né dalla Santa Sede. Quelle leggi sono considerate un’infamia, ma la responsabilità non può essere addebitata al re solo.
Nel 1940 l’Italia già confinava al Brennero con la Germania, che nel marzo 1938 aveva annesso l’Austria. Attraverso la Francia, ormai vinta, i tedeschi puntavano al Mediterraneo. Il 10 giugno l’Italia entrò nel conflitto senza adeguata preparazione, non tanto a fianco di Hitler quanto per arginarlo. Anche all’estero prevaleva l’illusione che la guerra sarebbe finita entro poche settimane. Invece da europea essa divenne nuovamente mondiale. Tre anni dopo, il 25 luglio 1943, il re, di sua personale iniziativa, revocò Mussolini e non lo sostituì con un gerarca fascista (come tanti si attendevano) ma col maresciallo Pietro Badoglio, gradito agli inglesi, col mandato di sganciare l’Italia dall’alleanza. All’indomani dell’annuncio della resa (sottoscritta a Cassibile il 3 settembre e comunicata la sera dell’8), il governo e la famiglia reale lasciarono Roma (già pesantemente bombardata e comprendente la Città del Vaticano) per non trasformarla in campo di battaglia contro i tedeschi, senza prospettive di vittoria, e raggiunsero la Puglia, libera da tedeschi e non ancora raggiunta da anglo-americani: un lembo di Italia indipendente, dal quale intraprendere il Secondo Risorgimento. Scongiurata la “debellatio” (cioè la scomparsa dello Stato, come accadde per la Germania nel maggio 1945), la ricostruzione si incardinò sulla fedeltà delle Forze Armate alla Corona.
Il temperamento di Vittorio Emanuele III è stato efficacemente descritto dal suo aiutante di campo, Arturo Cittadini. Poliglotta e padrone di tutti i dialetti d’Italia, Vittorio Emanuele III fu studioso avido di apprendere. Celebre è la sua raccolta di monete, donata allo Stato e purtroppo manomessa. Si levava sempre alle 6; alle 7 aveva letto i giornali e dalla residenza privata alle 9 andava al Quirinale, come un funzionario, convinto che gli italiani avevano bisogno di esempi di rigore e di moralità. Quando lo conobbe, il presidente Theodore Roosevelt gli disse: “Maestà, se ella viene in America, la facciamo subito presidente”. Al generale Paolo Puntoni tracciò egli stesso un amaro bilancio della monarchia: “Non si può dire che da quando s’è formata l’Italia le cose siano andate bene per la mia Casa. Solo mio nonno ne è uscito bene. Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato…”. Sua figlia, Mafalda principessa d’Assia, morì in campo di concentramento. Suo figlio, Umberto II, morì a Ginevra, esule dal 13 giugno 1946. A differenza di quanto asserito da Ernesto Galli della Loggia, l’otto settembre 1943 non morì affatto la Patria. Molti italiani, da posizioni anche molto diverse e persino opposte, intrapresero la lunga marcia per liberare il Paese dalle ingerenze straniere e ottenere il pieno riconoscimento, sul piano di pari dignità, del suo secolare concorso alla Comunità dei popoli liberi: un cammino irto di ostacoli, tanto che nell’Organizzazione delle Nazioni Unite l’Italia fu ammessa solo nel 1955, insieme con la Spagna di Francisco Franco, restauratore della monarchia. La ricostruzione e il miracolo saldarono il Secondo Risorgimento all’unificazione nazionale, incardinata su Casa Savoia, sul ruolo istituzionale e sulla personalità dei suoi sovrani.
Aldo A. Mola
GDP SANTA ALLEANZA 2013 1 settembre
SANTA ALLEANZA: INTERVENTO, NON INTERVENTO, ANARCHIA INTENAZIONALE
di Aldo A. Mola
Nel 1815, per voltar pagina con lo sconquasso delle guerre franco-napoleoniche (1792-1815) e fondare il concerto europeo, le potenze vincitrici (Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia) associarono il vinto, la Francia. Ci vollero tre Trattati nel 1814 e i lunghi mesi del Congresso di Vienna, dal quale scaturì la Santa Alleanza, che in vertici successivi decise l’intervento militare per ristabilire l’ordine, cioè annientare i liberali che chiedevano monarchie costituzionali al posto di regimi assoluti. L’Austria mise in riga i liberali italiani. La Francia fece altrettanto con quelli di Spagna. La Russia ebbe mani libere per far regnare l’ordine a Varsavia. Nell’estate 1830 Luigi Filippo di Borbone-Orléans, elevato al trono da una rivoluzione senza sangue, e la Gran Bretagna decisero che i Belgi potevano staccarsi dai Paesi Bassi e costituirsi in regno indipendente sotto tutela internazionale. La Santa Alleanza rimase al palo. Allora i liberali si mossero, specie in Italia, confidando nel “non intervento”, ma la Francia lasciò campo libero alla repressione asburgica e si limitò ad occupare Ancona.
A parte l’indipendenza della Grecia e la formazione del regno d’Italia, frutto di guerre di bassa intensità, malgrado tensioni e conflitti periferici (dai quali sorsero Romania, Bulgaria, Montenegro), in Europa la pace resse sino al 1914. Lo scossone della guerra franco-germanica del 1870-71 indusse anzi a scaricare la gara per l’egemonia nella conquista degli spazi coloniali extraeuropei. Dopo la Grande Guerra per spegnere subito nuovi possibili incendi e arginare le rivoluzioni venne istituite la Società delle Nazioni, che funzionò poco e male. Non decise alcun intervento significativo, non fermò le guerre e nel 1935 deliberò le sanzioni economiche ai danni dell’Italia quando Roma invase l’Etiopia, membro della Società stessa. Le Nazioni Unite dal 1945 avocarono il potere di interventi militari e ne attuarono molti. Ma altre missioni di pace furono decisi da soggetti diversi, come la Nato, strumento militare dell’Alleanza Atlantica, e dal Patto di Varsavia (in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia). Ora si registra uno stallo, sia dell’ONU, sia di coalizioni multilaterali. Nella Comunità internazionale dilaga una pericolosa anarchia.
Torino, prima capitale d’Italia, ospita il XXXIX Congresso della Commissione Internazionale di Storia Militare per approfondire il rapporto tra “governo mondiale” e “interventi multilaterali”. Il tema è di scottante attualità, mentre alcuni governi si affannano a procacciare base legale alla ritorsione (a quale titolo?) contro al-Assad (su quali certezze e con quali rischi?). Ma per gli storici, esso ha millenni di precedenti. La riflessione sulla politica vera, cioè sul rapporto tra la diplomazia e le armi, come insegnò Clausewitz, vi si snoda infatti dalle Guerre del Peloponneso alla spedizione degli aghlabidi in Sicilia (827-909), dalla guerra di successione sul trono di Vienna (1741 -48) a una quantità fantasmagorica di “episodi” . Paese ospite dell’importante Congresso scientifico, realizzato con l’impegno degli Uffici Storici della Difesa (col. Matteo Paesano), dell’Esercito (col. Antonino Zarcone), della Marina ( C. V. Francesco Loriga) e dei Carabinieri (ten. Col. Flavio Carbone), l’Italia partecipa con docenti prestigiosi, quali Virgilio Ilari, Alessandro Barbero, Pietro Crociani e molti giovani ricercatori, alcuni dei quali già affermati, come Federica Saini Fasanotti, finalista del Premio Acqui Storia e autrice di un’ eccellente opera edita dell’Ufficio Storico SME sulle Operazioni militari italiane in Libia (1922-1931).
Dalla rassegna di Torino emerge che ogni Paese ha vissuto successi ed errori. La saggistica italiana ha invece solitamente enfatizzato soprattutto le sconfitte (Novara, Lissa, Adua, Caporetto, 8 settembre…), isolandole dal contesto e oscurando le vittorie, con una lettura negativa dello “strumento militare”. E’ quanto emerge, per esempio, da Generali di Domenico Quirico (che auspichiamo torni presto libero agli studi) e da molte opere di Nicola Labanca e altri seminatori di cupo pessimismo, dimentichi che dall’Unità le Forze Armate sono state con la pubblica istruzione la vera fucina della Nuova Italia Nuova e concorsero a liberare i cittadini dalla sottocultura fondata sulla superstizione, come ha documentato Oreste Bovio nella poderosa Storia dell’esercito italiano, ora riproposto dall’Ufficio Storico SME.
Quel passato fa aprire gli occhi sul presente. La Camera inglese ha rifiutato l’attacco militare alla Siria. Ancora una volta l’Inghilterra impartisce una lezione. E’ una monarchia costituzionale. La più antica d’Europa. Alle spalle ha la Magna Carta e l’habeas corpus, due pilastri della civiltà liberale. Da secoli il governo inglese non può decidere spese senza l’approvazione dei contribuenti e i cittadini non possono essere arrestati senza un’imputazione formale.
Si discuterà a lungo su questa svolta. Ci si domanderà se i deputati inglesi abbiano deciso solo per motivi giuridici (la mancanza di prove sicure dell’uso di armi chimiche da parte di el-Assad) o anche per interessi (i complessi rapporti economici tra Londra e il mondo arabo-islamico). Quel che conta è che il Parlamento ha rivendicato la propria sovranità sulla politica estera: un caposaldo della sua lunga fortuna degli inglesi, esaminata da Ottavio Bariè nei saggi raccolti da Massimo de Leonardis in Dall’Impero britannico all’Impero americano (Le Lettere), mentre ora l’egemonia degli USA risulta appannata, lontana dal ruolo di guida sicura dell’Occidente, come lo stesso Bariè osserva in Dalla guerra fredda alla grande crisi (il Mulino), finalista all’Acqui Storia. Proprio il declino dell’egemonia di Washington apre spazi alle frenesie di Stati di seconda e terza fila, smaniosi di protagonismo, come la Francia di Sarkozy e di Hollande.
Anche in Italia dalla Grande Guerra la centralità del governo politico della forza quale pilastro della democrazia fu il terreno di scontro fra due concezioni dello Stato. Di una fu interprete maturo Giovanni Giolitti che dall’agosto 1917 chiese a viso aperto di trasferire dalla Corona al Parlamento l’approvazione dei trattati internazionali e soprattutto il potere di dichiarare guerra. Non l’ottenne. Fu così che nel 1940 l’Italia venne buttata una seconda volta nella fornace di una guerra generale dall’andamento poi rovinoso, senza che alcun Istituto rappresentativo fermasse Mussolini: una catastrofe di cui paghiamo e pagheremo le conseguenze. Quei precedenti ci ricordano che dal 1848 al 1946 l’Italia fu monarchia costituzionale con poteri asimmetrici; dal 1946 scelse di essere una repubblica parlamentare, ma in troppi casi il Parlamento ratifica decisioni delicate assunte altrove. La verifica del corretto equilibrio tra i poteri avviene nelle ore supreme, quando ci si deve domandare se il Paese, sul quale ricadono le decisioni dell’esecutivo, concordi davvero con le decisioni del governo e sia disposto ad accollarsene il peso. Fu la domanda che si pose il ministro della Guerra Domenico Grandi nell’ottobre 1914: un dubbio “giolittiano”. Venne sostituito. Forse una conferenza di pace dell’ultimo minuto, un maggior sforzo della diplomazia avrebbe fermato la concatenazione di ultimatum e di dichiarazioni di guerra: che si sa come iniziano, mai come finiscano. Ma ormai la Santa Alleanza era solo un ricordo. Per di più esageratamente odioso (*).
Aldo A. Mola
(*) Il XXXIX Congresso della Commissione Internazionale di Storia Militare si svolge al Centro Congressi di Torino dal 2 al 6 settembre. Alle 17 di oggi (domenica 1 settembre) alla Biblioteca Universitaria è inaugurata la mostra “I volti dei Militari Italiani”.